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Marò che maccheronata!
Teribbile. Si dovesse riassumere in una parola la figura fatta dall’Italia sul caso dei due Marò lo farei così, rigorosamente con una r e due b.
Ora, la questione più propriamente di diritto internazionale la lascio a chi ne sa più di me, che è argomento complesso e per esperti del settore (consiglio caldamente di leggere gli articoli ai due link e anche la corposa mole di commenti al primo).
Quella dei marò è una vicenda però anche, e forse ancor più, politica.
Ed è qui che la politica italiana ha fallito miseramente.
L’Italia, nel merito, oserei dire che ha deliberatamente deciso, con l’atto iniziale di non far rientrare i marò in India come previsto, di schiacciare la soluzione giuridica del conflitto con quella politica: secondo il vecchio principio per cui del diritto internazionale, nella sostanza, lo stato più forte può infischiarsene, dato il principio dell’autotutela. L’Italia ha giocato questa carta: il non irrilevante problema che non si era posta è se fosse effettivamente l’attore più forte.
Credo che la soluzione politica alla vicenda sia arrivata da un cedimento di Terzi al pressing sempre più incessante che la destra para-fascistoide nel Pdl stava portando avanti da mesi (gli sbraiti dei fascisti del terzo millennio e affini sono divertenti ma non trovo siano ritenuti degni di nota); questo andava d’altra parte a braccetto con una campagna mediatica patriotticheggiante, monocorde sui canali governativi e mediaset, i quali mistificavano completamente la realtà e si sono anche esibiti in casi fin troppo accademici di servizi atti a influenzare indirettamente l’opinione pubblica sul caso: pochissimi giorni fa sul tg di Rai 2, subito dopo un servizio sui marò “che sarebbero rimasti in Italia”, un servizio su due italiani detenuti nelle carceri in India per un omicidio, nel quale si suggeriva neppure troppo velatamente la presunta ingiustizia del processo e la conseguente ingiustizia della carcerazione dei due italiani (a cui a prescindere va la mia solidarietà, scontare un ergastolo nelle carceri indiane non lo auguro a nessuno).
Il problema è che non si è calcolata la reazione. Si è pensato, probabilmente, che l’India si lamentasse, si incazzasse, ma che, secondo la dottrina sopra riportata, ciò poco potesse tangerci, tanto più con la copertura che l’Italia possiede in termini di reti e alleanze internazionali.
Ciò che non si è calcolato è che se in Italia l’indignazione per i due marò è stata sentita dalle alte cariche dello stato, da nazionalisti/patriottardi e da fascistaglia più o meno orgogliona e pochissimi altri, in India c’è stato un vero sommovimento popolare, con tanto popo’ di manifestazioni di cittadini incazzati neri.
In sostanza non si è calcolato che la mobilitazione popolare vera avutasi in India, a differenza di quella solo costruita in Italia, ha portato la classe politica indiana alla necessità di assumere decisioni anche drastiche pur di salvare la faccia davanti alla popolazione elettrice.
Qui risiede a mio parere l’errore più grande, in quanto non era difficile vedere tale differenza.
In India l’odio verso due militari che hanno ammazzato due pescatori poveracci, accresciuto dal trattamento da veri pascià di cui dispongono in India (guest house e hotel di lusso, menù preparati appositamente per loro a base di specialità italiane pagati dai contribuenti indiani) nonostante la retorica italiana che li vorrebbe dietro e sbarre, si interseca e si fonde con uno spirito patriottico molto più sentito che da noi, riassunto bene nel concetto “non si può far pippa”: l’India è fra gli egemoni a livello regionale ed è una delle “nuove” potenze mondiali assurte dal novero degli stati in via di sviluppo; è chiaro che l’India viva (1) da parte della classe politica la necessità di dimostrare continuamente il proprio prestigio, la propria rilevanza e la propria forza, per affermare il proprio pieno diritto a sedere fra le potenze mondiali; (2) una notevolmente maggiore mobilitazione popolare in difesa dell’onore, o del prestigio, della propria nazione per i motivi sopraddetti, tanto più se nei confronti di una “vecchia” potenza mondiale come l’Italia.
Tutti elementi che in Italia non sussistevano.
Aggiungiamoci che Sonia Ghandi, la presidente del partito del congresso indiano, è Italiana, e dunque tanto più necessario diventava essere inflessibili per scacciare le sempre più insistenti voci di accondiscendenza per questioni…di origine.
A questo punto la mossa indiana si è rivelata quasi obbligata ma anche decisiva: la scelta di impedire all’ambasciatore italiano di rientrare in Italia era una spudorata violazione dei più basici principi di diritto generale internazionale, ma anche l’India aveva evidentemente deciso di abbandonare, almeno momentaneamente, il campo del diritto per quello della politica, rilanciando sulla mossa italiana, decisa a scoprire il bluff.
E l’Italia ha scoperto il suo bluff.
Non più disposta a rilanciare sul piano politico, forzando l’uscita dell’ambasciatore dall’India, credo anche per la nuova consapevolezza acquisita della reale pressione popolare sul governo indiano, è rimasta vittima della sua stessa trappola: si è limitata ad appellarsi alla violazione del diritto internazionale. L’Europa ha fatto eco della dichiarazione italiana, in modo a dire il vero poco convinto, e allo stesso modo gli Stati Uniti, in modo ancora meno convinto (l’Italia è un stato fedele sotto l’ombrello Nato, e tale sarebbe comunque rimasto, l’India è una potenza regionale e mondiale con cui fare i conti). L’india ha significativamente risposto: “Embé?”, e a quel punto il bluff italiano è definitivamente ed ingloriosamente crollato.
La motivazione poi ufficiale di Terzi, “Abbiamo così garantito che ai due Marò non sia applicata la pena di morte”, oltrepassa abbondantemente la soglia del ridicolo: il rischio della pena di morte dei marò non c’è proprio mai stata.
Innanzitutto nessun politico indiano, per quanto spinto dalle masse inferocite, giustizierebbe due militari italiani senza pensare di avere a quel punto sì ripercussioni davvero pesanti. Secondariamente, la pena di morte in India è ormai raramente applicata: è stata sentenziata in due casi in tutto l’arco del XXI secolo (per intenderci gli Usa, che hanno 1/4 degli abitanti indiani, nel solo 2012 hanno giustiziato 43 individui), una volta nel caso di una strage di 150 persone da parte di un terrorista Pakistano (la peggior combinazione possibile se sei in India), nell’altra in un caso efferatissimo di stupro e successivo assassinio di una ragazzina minorenne. Pensare una simile pena per due marò che fino ad ora son stati trattati con tutti gli onori è fantascienza, a cui non crede neppure Giulio Terzi.
Il conflitto in Mali, vuoi per il periodo nel quale è scoppiato, vuoi per la tipica tendenza giornalistica italiana a snobbare i temi di politica estera, sta, per così dire, strisciando al di sotto del dibattito pubblico nazionale.
Il governo italiano dopo un iniziale, un poco inquietante silenzio, ha deciso di contribuire con l’invio di alcuni addestratori militari, e un generico “supporto logistico”, che nelle ultime ore sembrerebbe includere anche l’impiego di alcuni droni militari. Questo, senza coinvolgere il parlamento italiano e approfittando di fatto dell’inattività pre-elettorale.
Ma partiamo dal principio: La Francia interviene militarmente in Mali l’11 Gennaio, in seguito ad una richiesta del governo Maliano. La stessa Francia che nel 2011 inaugurò l’intervento militare internazionale in Libia.
Anche se il Presidente della Repubblica è mutato, da Sarkozy ad Hollande, non paiono mutati gli indirizzi in politica estera della Francia, intenzionata a giocare una politica “di potenza”, aggressiva, in particolare nella regione nord-africana del Maghreb e del Sahel: una politica si può ipotizzare mossa da molteplici interessi, ovvero
(1) mantenere dei rapporti economico-commerciali privilegiati con i paesi della regione, in buona parte proprie ex-colonie (la ei fu Africa Occidentale Francese, ovvero Mauritania, Niger, lo stesso Mali, l’Algeria, ma anche Senegal, Ciad e Burkina-faso, tutti paesi dove la Francia mantiene dei contingenti militari), caratterizzati da tipiche pratiche neocolonialiste. E’ facile individuare come il Mali sia l’epicentro geografico di una serie di interessi economici francesi in Mauritania (dove la Total estrae petrolio da 7 anni), in Niger (fondamentale fonte di Uranio per le centrali francesi tramite Areva e EDF, e dove è di prossima costruzione la seconda miniera d’Uranio più grande al mondo) e l’Algeria (primo partner commerciale francese e paese molto ricco di gas); scontato che lasciare dunque il Mali (fra l’altro alleato storico della Francia) o semplicemente fallire, nel significato proprio di stato fallito, o in mano ad un nuovo governo ostile di stampo fondamentalista islamico, porrebbe una seria ipoteca sulla stabilità regionale e gli interessi economici francesi.
(2) di prestigio europeo ed internazionale: la Francia, complice anche uno storico e mai del tutto sopito orgoglio patriottico, ma anche una più prosaica e diffusa volontà di affermazione, può solo puntare sulla politica estera per poter rivendicare un proprio ruolo egemone in Europa: la crisi economica che colpisce anche la Francia la condanna, sul versante economico, a un ruolo gregario rispetto alla sempre più evidente egemonia tedesca; il versante della politica estera (e dunque del potere militare) diventa il campo dove esercitare e guadagnare prestigio e la propria egemonia a livello regionale (europeo), e preservare il proprio ruolo di attore rilevante nello scacchiere degli Stati a vario titolo e forma interessati nel continente africano.
(3) distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica interna (francese) dal problema economico e dalle difficili riforme in previsione, secondo uno dei metodi più antichi ma efficaci della storia dell’umanità, ovvero la coagulazione della popolazione tramite l’individuazione di un nemico comune. Non a caso il frame riproposto è quello della guerra al terrorismo Al-Qaedista, aggravato dalla minaccia diretta sul territorio francese.
Il contesto dell’intervento francese, però, pare molto più complesso.
Dal conflitto libico, nella realtà dei fatti, la Francia non uscì particolarmente rafforzata sul piano del prestigio internazionale, dimostrandosi sostanzialmente inadeguata al compito arrogatosi di risolutrice del conflitto; a risultare fondamentale si rivelò, fatto per nulla strano, l’intervento militare statunitense: gli Stati Uniti non temettero di di farlo pesare, in forma anche alquanto esplicita, nei confronti della Francia e più in generale dei paesi europei al fianco dell’Europa (sarebbe interessante ma troppo dispersivo riflettere sulla sovrapposizione avvenuta fra aspirazioni francesi in Europa e rapporto fra Europa e Usa). L’ammissione implicita da parte della Francia di questo fallimento avvenne con la cessione della gestione dell’intervento militare sotto il controllo NATO, dunque degli Stati Uniti.
La guerra civile libica ebbe un altro effetto rilevante ai fini dell’attuale conflitto Maliano: all’interno di quell’entità magmatica, indefinita, e spesso mitizzata dalla stampa occidentale che erano i “ribelli libici” al regime di Gheddafi, una parte se non maggioritaria consistente era composta da integralisti islamici contigui alle posizioni Al-Qaediste. Sono noti a tutti il contributo ingente e fondamentale ai fini del conflitto portato ai ribelli, in termini di armamenti, da parte proprio di Francia e NATO. Proprio questi importanti contributi paiono aver permesso ad Al-Qaeda tramite le milizie ad essa contigue (il lifg, Lybian Islamic Fighting Group) una nuova importante fase di espansione, realizzatasi nel medio-oriente con la presenza sempre più rilevante di forze integraliste islamiche nella fsa (Free Syrian Army) e in Africa proprio con l’aggravarsi della guerra civile che interessa il Mali, in cui nel Nord del paese i tuareg tradizionalmente combattenti per l’indipendenza si sono alleati, ed alcuni sostengono siano stati marginalizzati, con l’Al-Qaeda In Maghreb.
Entrambi gli eventi considerati qui sopra hanno avuto una notevole ricaduta sull’intervento militare francese odierno in Mali.
Difatti la Francia, sebbene abbia espresso la convinzione di chiudere celermente il conflitto (sintomatico è stato il celere annuncio della riconquista di Konna, poi smentito sia dagli integralisti che dai francesi), ha immediatamente cercato il sostegno statunitense, il quale non ha mancato in un primo momento di farsi desiderare, per poi intervenire avallando il frame della guerra al terrorismo, ma limitando il proprio intervento al campo aereo; d’altra parte neppure gli Usa possono ignorare i propri interessi in Africa. Particolare fra l’altro come la Francia abbia iniziato autonomamente il conflitto, forzando l’interpretazione di una risoluzione Onu, per poi però richiedere da subito l’intervento del resto dei paesi europei con la formula del “non lasciateci soli nella lotta al terrorismo”. L’unilateralismo francese può spiegarsi con la volontà di mantenere rigido il proprio “diritto di prelazione” sul territorio maghrebino, anche nella consapevolezza, evidente innanzitutto alla Francia, di non potere gestire il conflitto da sola. Insomma, l’eliseo sembra dire: tutta l’Europa ha il dovere di combattere il terrorismo, ma la sola Francia ha il diritto di iniziativa e di comando, perlomeno sul suolo africano. Altra ipotetica spiegazione della scelta francese è che in realtà la Francia non volesse questo conflitto. O che, meglio, lo avesse previsto ben più oltre. Questo spiegherebbe la gran fretta francese e le pressanti richieste di sostegno immediato. Da notare come le due interpretazioni non si contraddicano, anzi credo siano entrambe almeno parzialmente vere.
Ma da quali elementi l’intervento è stato costretto? Pare sia proprio qui che rientrano in gioco i ribelli libici/Al-Qaeda in Maghreb, che hanno sconvolto gli equilibri delle fazioni in gioco nella guerra civile Maliana, accellerando notevolmente il crollo del debolissimo regime di Bamoko.
Insomma, per uno dei tanti paradossi della storia, la Francia interviene per contrastare il dilagare dei ribelli, i quali hanno avuto la meglio nel conflitto grazie agli armamenti procurati…dalla Francia!
Se dunque vi è un colpevole dell’intervento francese in Mali, questo è la Francia stessa, che ha prima finanziato i nemici del governo Maliano proprio alleato, mettendo la popolazione a rischio di essere assoggettata ad un fondamentalismo islamico estraneo alla propria tradizione, e si è fatta cogliere poi impreparata dall’evolversi degli eventi.
A nota di tutto, appare molto ambigua la posizione dell’Unione Africana, la quale attualmente pare volenterosa di difendere il governo Maliano, parte integrante di essa, senza però molte possibilità di portare contributi concreti, preferendo così lasciar fare alla Francia, mostrando una evidente debolezza politica: l’UA si oppose fermamente alla guerra di Libia, che come abbiamo visto è una delle cause della degenerazione dell’attuale conflitto, davanti al quale però l’UA non è stata in grado di fare altro che appellarsi alla Francia, rinunciando a formulare qualsiasi critica (a ben vedere più che giustificata) sul modus operandi europeo e le sue conseguenze.
Insomma, chi ritiene questo intervento giusto, perché invocato dagli stessi paesi africani, o perché necessario per “la guerra al terrorismo”, a mio parere è in torto in quanto il tracollo dello stato Maliano è da imputarsi alla stessa Francia; ora, a emergenza in corso, la guerra non può essere la soluzione per tanti motivi:
(1) la durata di un conflitto, in un territorio adatto alla guerriglia come quello Maliano, è assolutamente incerta;
(2) in guerra, perlomeno nella guerra contemporanea, è noto che la grandissima parte dei morti sono morti civili, in particolare le categorie più fragili come quella femminile e infantile: chi si prende la responsabilità di operare, o sostenere, un conflitto armato, deve anche prendersi la responsabilità di tutti quei morti che sui media non vengono quasi mai menzionati, divorati nel tritacarne del frame della guerra umanitaria;
(3) come dimostrano i conflitti in Afghanistan, Iraq, Libia, etcetera, la guerra aperta ad Al-Qaeda e soci ha fin’ora foraggiato ed aiutato la propaganda fondamentalista, che si espande sulla pelle delle popolazioni civili che vengono bombardate ed invase, che riesce ad egemonizzare molti schieramenti ribelli grazie alla propria organizzazione ed al proprio arsenale (che è ciò che sta accadendo in Siria e anche, appunto, in Mali); questo porta ad altri atti terroristici (il primo sta già avvenendo in Algeria con un altissimo numero di ostaggi), altro terrore, altra guerra al terrore, in una spirale involutiva sempre più buia e sporca di sangue.
(4) non dimentichiamoci che il conflitto maliano non è solo un conflitto fra stato (debolissimo) e integralismo islamico: anzi, questo è un secondo livello del conflitto, che è andato a sovrapporsi al primo, un tipico conflitto inter-etnico all’interno del tipico stato africano costruito col righello; intervenire e favorire il conflitto significa favorire un conflitto etnico, sulle cui conseguenze in Africa abbiamo sufficienti testimonianze.
Quale soluzione, allora? Certo è che la soluzione diplomatica sarebbe stata più semplice senza questo grado di debolezza dello stato Maliano, e grado di forza del fondamentalismo islamico.
Nella mia inadeguatezza a possedere risposte ad una domanda così complessa, il mio parere è che la soluzione a questo conflitto, permettete il paradosso, non può limitarsi a questo conflitto, ma dovrebbe comporsi d’interventi, e di cambi di mentalità, allargati a tutto il Sahel e tutta l’Africa: favorire il dialogo e la diplomazia, rafforzando gli attori africani piuttosto che compiendo ingerenze come attori europei, intensificando gli aiuti umanitari, terminando l’orrido neocolonialismo che condanna molte popolazioni africane alla miseria e molti stati africani ad una intrinseca debolezza.