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Un popolo in marcia

“I popoli in rivolta scrivono la storia, No Tav fino alla vittoria”.
Un coro scandito più volte al corteo di sabato, un coro che racchiude una profonda verità: quello che la lotta no tav è realmente una lotta di popolo, è la rivolta collettiva di una valle di irriducibili.
Senza retoriche, senza rappresentazioni mitiche, è una sensazione che avverti subito quando raggiungi il concentramento. Sei nella periferia (intesa come parte del binomio centro-periferia regionale), lontanissimo da perni politici pulsanti quali Torino o Milano, eppure respiri un movimento di popolo reale e radicato, che leggi nelle facce delle signore e signori che tengono i gazebo con squisiti panini al lardo e (ottimi) bicchieri di rosso, nei banchetti che vendono cibi e bottiglie di vino “no tav”.

Sotto il comunicato stampa da notav.info e il servizio del Tg3 nazionale (ad un certo punto potete anche vedermi sfilare inconsapevolmente davanti alla telecamera telecamera)

Se ce n’era bisogno la Valsusa lo ha dimostrato ancora una volta, in 80.000 al corteo che da Susa e arrivato a Bussoleno il popolo notav si è fatto vedere, baldo e fiero, con l’orgoglio della sua lotta e delle sue ragioni.

Una giornata densa di avvenimenti, iniziata presto che saputo esemplificare il senso di questa battaglia che non lascia scoperto nessun campo di lotta. Al mattino ispezione al cantiere con i parlamentari notav del Movimento 5 Stelle e di Sel, accompagnati dai tecnici ed esperti della Comunità Montana e da tre attivisti notav che hanno sfidato gli aut aut di Ltf e Questura.

A metà mattina il convegno organizzato dagli amministratori della Valle con la partecipazione di moltissimi aministratori di tutta Italia e da Laura Puppato e Michele Emiliano del Pd a testimoniare la profonda crepa che si sta allargando nel Pd. Il buon senso di chi amministra città e paesi contrapposto all’assurdità dei centri di potere e della politica del palazzo, ultimi superstiti del fronte sitav, quelli che ce lo chiede l’Europa e del non possiamo essere tagliati fuori.

E poi la manifestazione con l’espresisone collettiva di un popolo in marcia che si è trasformato in movimento di lotta da tempo, determinato e cosciente della propria forza e delle proprie ragioni. 8 kilometri sotto la pioggia, 80.000 uomini donne e bambini in marcia per difendere il nostro futuro, con la partecipazione di molti notav provenienti da tutta Italia.

Una giornata da ricordare, che testimonia che se il clima in qualche modo è mutato, fermarlo è sempre più possibile e fermarlo tocca sempre a noi!

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Marò che maccheronata!

Teribbile. Si dovesse riassumere in una parola la figura fatta dall’Italia sul caso dei due Marò lo farei così, rigorosamente con una r e due b.
Ora, la questione più propriamente di diritto internazionale la lascio a chi ne sa più di me, che è argomento complesso e per esperti del settore (consiglio caldamente di leggere gli articoli ai due link e anche la corposa mole di commenti al primo).
Quella dei marò è una vicenda però anche, e forse ancor più, politica.
Ed è qui che la politica italiana ha fallito miseramente.
L’Italia, nel merito, oserei dire che ha deliberatamente deciso, con l’atto iniziale di non far rientrare i marò in India come previsto, di schiacciare la soluzione giuridica del conflitto con quella politica: secondo il vecchio principio per cui del diritto internazionale, nella sostanza, lo stato più forte può infischiarsene, dato il principio dell’autotutela. L’Italia ha giocato questa carta: il non irrilevante problema che non si era posta è se fosse effettivamente l’attore più forte.
Credo che la soluzione politica alla vicenda sia arrivata da un cedimento di Terzi al pressing sempre più incessante che la destra para-fascistoide nel Pdl stava portando avanti da mesi (gli sbraiti dei fascisti del terzo millennio e affini sono divertenti ma non trovo siano ritenuti degni di nota); questo andava d’altra parte a braccetto con una campagna mediatica patriotticheggiante, monocorde sui canali governativi e mediaset, i quali mistificavano completamente la realtà e si sono anche esibiti in casi fin troppo accademici di servizi atti a influenzare indirettamente l’opinione pubblica sul caso: pochissimi giorni fa sul tg di Rai 2, subito dopo un servizio sui marò “che sarebbero rimasti in Italia”, un servizio su due italiani detenuti nelle carceri in India per un omicidio, nel quale si suggeriva neppure troppo velatamente la presunta ingiustizia del processo e la conseguente ingiustizia della carcerazione dei due italiani (a cui a prescindere va la mia solidarietà, scontare un ergastolo nelle carceri indiane non lo auguro a nessuno).
Il problema è che non si è calcolata la reazione. Si è pensato, probabilmente, che l’India si lamentasse, si incazzasse, ma che, secondo la dottrina sopra riportata, ciò poco potesse tangerci, tanto più con la copertura che l’Italia possiede in termini di reti e alleanze internazionali.
Ciò che non si è calcolato è che se in Italia l’indignazione per i due marò è stata sentita dalle alte cariche dello stato, da nazionalisti/patriottardi e da fascistaglia più o meno orgogliona e pochissimi altri, in India c’è stato un vero sommovimento popolare, con tanto popo’ di manifestazioni di cittadini incazzati neri.
In sostanza non si è calcolato che la mobilitazione popolare vera avutasi in India, a differenza di quella solo costruita in Italia, ha portato la classe politica indiana alla necessità di assumere decisioni anche drastiche pur di salvare la faccia davanti alla popolazione elettrice.
Qui risiede a mio parere l’errore più grande, in quanto non era difficile vedere tale differenza.
In India l’odio verso due militari che hanno ammazzato due pescatori poveracci, accresciuto dal trattamento da veri pascià di cui dispongono in India (guest house e hotel di lusso, menù preparati appositamente per loro a base di specialità italiane pagati dai contribuenti indiani) nonostante la retorica italiana che li vorrebbe dietro e sbarre, si interseca e si fonde con uno spirito patriottico molto più sentito che da noi, riassunto bene nel concetto “non si può far pippa”: l’India è fra gli egemoni a livello regionale ed è una delle “nuove” potenze mondiali assurte dal novero degli stati in via di sviluppo; è chiaro che l’India viva (1) da parte della classe politica la necessità di dimostrare continuamente il proprio prestigio, la propria rilevanza e la propria forza, per affermare il proprio pieno diritto a sedere fra le potenze mondiali; (2) una notevolmente maggiore mobilitazione popolare in difesa dell’onore, o del prestigio, della propria nazione per i motivi sopraddetti, tanto più se nei confronti di una “vecchia” potenza mondiale come l’Italia.
Tutti elementi che in Italia non sussistevano.
Aggiungiamoci che Sonia Ghandi, la presidente del partito del congresso indiano, è Italiana, e dunque tanto più necessario diventava essere inflessibili per scacciare le sempre più insistenti voci di accondiscendenza per questioni…di origine.
A questo punto la mossa indiana si è rivelata quasi obbligata ma anche decisiva: la scelta di impedire all’ambasciatore italiano di rientrare in Italia era una spudorata violazione dei più basici principi di diritto generale internazionale, ma anche l’India aveva evidentemente deciso di abbandonare, almeno momentaneamente, il campo del diritto per quello della politica, rilanciando sulla mossa italiana, decisa a scoprire il bluff.
E l’Italia ha scoperto il suo bluff.
Non più disposta a rilanciare sul piano politico, forzando l’uscita dell’ambasciatore dall’India, credo anche per la nuova consapevolezza acquisita della reale pressione popolare sul governo indiano, è rimasta vittima della sua stessa trappola: si è limitata ad appellarsi alla violazione del diritto internazionale. L’Europa ha fatto eco della dichiarazione italiana, in modo a dire il vero poco convinto, e allo stesso modo gli Stati Uniti, in modo ancora meno convinto (l’Italia è un stato fedele sotto l’ombrello Nato, e tale sarebbe comunque rimasto, l’India è una potenza regionale e mondiale con cui fare i conti). L’india ha significativamente risposto: “Embé?”, e a quel punto il bluff italiano è definitivamente ed ingloriosamente crollato.
La motivazione poi ufficiale di Terzi, “Abbiamo così garantito che ai due Marò non sia applicata la pena di morte”, oltrepassa abbondantemente la soglia del ridicolo: il rischio della pena di morte dei marò non c’è proprio mai stata.
Innanzitutto nessun politico indiano, per quanto spinto dalle masse inferocite, giustizierebbe due militari italiani senza pensare di avere a quel punto sì ripercussioni davvero pesanti. Secondariamente, la pena di morte in India è ormai raramente applicata: è stata sentenziata in due casi in tutto l’arco del XXI secolo (per intenderci gli Usa, che hanno 1/4 degli abitanti indiani, nel solo 2012 hanno giustiziato 43 individui), una volta nel caso di una strage di 150 persone da parte di un terrorista Pakistano (la peggior combinazione possibile se sei in India), nell’altra in un caso efferatissimo di stupro e successivo assassinio di una ragazzina minorenne. Pensare una simile pena per due marò che fino ad ora son stati trattati con tutti gli onori è fantascienza, a cui non crede neppure Giulio Terzi.

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Per ricordare Fausto e Iaio

Che idea morire di marzo, lascio un pezzo di vita e riparto più forte nella lotta, invidiavo i tuoi diciannove anni, ora me li sento addosso di più. E questa foto tua, che guardi lontano, un po serio. Se te la facessi vedere ora, ti metteresti pure a ridere dicendo che non era venuta bene, che in fondo non eri proprio tu. E tu, Iaio, doveri? Mi tornano in mente tutte le leggende antiche dei greci, quando i vivi si mettono a parlare con i morti. Poi non è più successo. La gente ha iniziato a dire che erano dei pazzi, che era meglio lasciare perdere. Perché bisogna dire che la tua è una morte politica dimenticando chi era Iaio? O dire solo che eri Iaio e dimenticare tutta quella gente sotto il sole e il vento di Milano con le montagne dietro? Sono qua, seduta su un foglio dove scorre l’inchiostro e mi appare il tuo viso, dolce, allegro. Sono fra mille persone, ognuna è diversa ma ognuna sei tu. Ti vedo in ogni corpo, ti sento in ogni voce, ti cerco in ogni strada. E poi, nellallegria dell’inchiostro ti ritrovo e ti bacio. Adesso il tuo viso non è più trasparente, adesso ti posso accarezzare, il tuo sorriso è caldo e vicino, i tuoi occhi chiusi sono davanti ai miei. Ti ho con me e domani ti porterò, ti rivedrò in ogni viso, ti cercherò altre volte, nellallegria di un sorriso: per poi tornare ad avvolgermi nella felicità di ritrovarti ancora con me. Di te conoscevo solo i sogni, il tuo sorriso, i tuoi libri, avevo visto solo i tuoi grandi occhi e la musica cheavevidentro,non ricordo le tue mani, non so chi amavi, di me non conoscevi niente, non volevo scoprirmi. Solo falsità e come vorrei avere i tuoi pensieri verso un cielo stellato e una luna che ha visto e sentito o verso un selciato sporco e una strada buia.
Puoi sentire quello che non ti ho mai detto?

(bigliettino anonimo lasciato in via Mancinelli, 1978)

Fausto e Iaio erano due ragazzi di 18 anni, due compagni frequentanti il Leoncavallo che da qualche mese lavoravano con altri ad un dossier sullo spaccio di ero a Milano. La sera del 18 Marzo del 1978 per questo vengono assassinati.
Gli inquirenti dichiarano subito che è un regolamento di conti interno alla estrema sinistra o addirittura fra spacciatori. La verità è che sono stati assassinati da un gruppo dei Nar, appartenenti all’estrema destra che a Milano in quegli anni era complice e fida alleata della criminalità organizzata nello spaccio di eroina.
Mauro Brutto è un cronista dell’Unità che con accuratezza inizia ad investigare sul caso non credendo alla versione ufficiale. Il 25 novembre viene assassinato fuori da un bar da una simca 1100 bianca che lo punta.
Le indagini sull’omicidio di Fausto e Iaio si prolungano fino al 6 Dicembre del 2000, quando l’inchiesta che vede come indagati Mario Corsi, Massimo Carminati, Claudio Bracci viene archiviata. Nella conclusione del giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Milano, Clementina Forleo, si legge:

Pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva e in particolare degli attuali indagati (Massimo Carminati, Mario Corsi e Claudio Bracci), appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura de relato delle pur rilevanti dichiarazioni. È dunque mancato il coraggio della giustizia e la forza della politica. Forse perché l’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci conserva ancora oggi qualcosa di indicibile.

Da allora, da quando “Si organizza una manifestazione spontanea. Nessuno accetta etichette di gruppo. Le organizzazioni politiche della Nuova Sinistra offrono il loro appoggio ma promettono che nessuno striscione sarà esposto. Il corteo è scomposto, non ha una testa neppure una coda. E loro entrano dappertutto, e gridano, e urlano a gran voce: <>. Vetrine, macchine, lampioni: tutto viene distrutto in un disordine assordante. Piazzale Loreto, corso Buenos Aires, corso Venezia, Piazza San Babila. E alla fine giù nella grande piazza….piazza Duomo. La manifestazione termina quando Milano dorme ormai da ore. Molti si danno appuntamento davanti alle scuole. Si stenderanno solo per rimediare qualche minuto di riposo. Ma nessuno avrà sogni tranquilli. Quei due corpi sul selciato diventeranno incubi ricorrenti, visioni notturne che cambieranno la vita.” (da Daniele Biacchessi, Fausto e Iaio, 1996), la memoria di Fausto e Iaio è sempre stata ragione di impegno attivo e quotidiano nell’antifascismo e nella lotta contro la criminalità organizzata.

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L’ottare sempre

Piccolo excursus storico: qualche anno fa lessi un volume dedicato ad Anna Kuliscioff, il quale riportava anche la raccolta di lettere, messaggi, dichiarazioni dei compagni socialisti di tutta italia alla sua morte. Ad eccezione di quelli di pochi compagni, spesso coloro che sono passati alla storia, vi è un’immagine comune a moltissimi di questi messaggi: quella di “un uomo nel corpo di una donna”, di “una donna dal carattere e dalle qualità maschili”, come massimo complimento. Scritto da compagni socialisti che avevano sinceramente amato e stimato la Kuliscioff. Fosse potuta risorgere un solo giorno, lei lo avrebbe probabilmente impiegato per strozzarli tutti. Non avevano capito nulla della lotta quotidiana che aveva impiegato per scardinare il monopolio dell’uomo.
Vedere la donna secondo i parametri maschili, sopratutto vedere la donna in funzione dell’uomo, è un atteggiamento sommessamente implicito in molti ragionamenti ed atteggiamenti più o meno consapevoli di noi uomini; è un atteggiamento a cui anche chi si dimostra per pensiero e attività più impegnato nella lotta per la liberazione femminile talvolta inconsciamente cede per poi repentinamente accorgersene; perché, fondamentalmente, è uno dei frame fondamentali della cultura occidentale, che ci piaccia o meno.
La battaglia per il riconoscimento del femminicidio come fenomeno sociale peculiare, nonché per l’introduzione dello stesso termine nel linguaggio quotidiano, è fondamentale perché isola con precisione chirurgica la manifestazione ultima di questo frame della donna come mera funzionalità maschile, ovvero l’uccisione della donna “in quanto donna“, e ne testimonia la gravità con la precisione di ciò che può essere contato (pure se molti rischiano di non venire mai alla luce).
Le battaglie più difficili come è noto sono quelle culturali, perché non basterà una legge sul femminicidio (sperando che venga fatta!) per risolverne il problema o eliminare la discriminazione di genere.
La disparità di genere si nota negli atteggiamenti inconsci quotidiani più banali: come il razzismo sarà più estraneo alla cultura occidentale solo quando non avremo l’istinto di dare alla persona di colore del tu invece che del lei, così per la questione di genere: Il maschio-centrismo ugualmente potrà aver fine soltanto quando non accadranno più eventi e fenomeni terribilmente quotidiani: quando nelle pubblicità dei prodotti di pulizia il protagonista non sarà più sempre una donna, e nelle pubblicità di automobili non sarà più sempre un uomo a guidarle; quando non vi sarà un’evidente disparità nei criteri di selezione di conduttori televisivi maschi e femmine; quando una donna disporrà del libero impiego del proprio corpo senza ripercussioni sociali; quando non ci sarà più bisogno delle quote rosa; quando…quando…quando…
Nel mentre, l’ottiamo sempre.

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6 di Sinistra

Il sito di Sel nell’ambito del suo particolare “Final Countdown” degli ultimi 10 giorni di campagna elettorale ha pubblicato ieri questo simpatico giochino virale: 6 di Sinistra, ovvero sei elementi (canzone, libro, film, piatto, citazione, parola) per definire il proprio essere di sinistra, o meglio per giocare a farlo.
Queste sono state le mie risposte, le tue?
P.S.= Oggi invece il tema è dedicato ai nonni e alle nonne, seguiamo l’invito a provare “a dare loro un po’ di ascolto, ché di cose da dirci ne hanno tante.”

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Facciamoci del male!

Ieri è stato il giorno della proposta sciocc[a] di Berlusconi: dopo “aboliremo l’Ici” del 2008, “rimborseremo l’Imu” del 2013; non un grande sforzo di originalità. Oggi il rilancio sul condono tombale.
E via tutte le restanti forze politiche a cadere nella tela del ragno Berlusconi: ieri ed oggi [quasi] tutti i leader (ma anche i militanti) a sbizzarrirsi su chi trovava la risposta più sagace, lo sberleffo più ridicolizzante. E i programmi? E i progetti, le prospettive, i nodi fondamentali della campagna elettorale dove sono? Sprofondati in un fiume carsico.
Facciamoci del male, insomma: Berlusconi spara la prima cazzata che gli passa per la mente, e invece di liquidare la sua sparata come tale e incalzarlo sul progetto per il paese, gli si va dietro.
L’ennesima applicazione della strategia politica della caciara: il centro-sinistra possiede una visione, o perlomeno possiede più visioni che potranno più o meno diversamente meticciarsi; il centro-destra un reale progetto di governo credibile non lo possiede. La teoria della caciara è la risposta ideale a tale mancanza, di cui Berlusconi è perfettamente consapevole: se il dibattito si sposta su quanto più il Cavaliere sa fare, ovvero spettacolo, creazione di infotainment, allora i rapporti di forza si invertono, il Cavaliere diventa il protagonista indiscusso, brillante ed incalzante, e gli altri inseguono, si limitano a rispondere, con il fiato sempre più corto. Il contrario di quanto accadrebbe se il dibatttito fosse sul futuro del paese, il contrario di quanto esalterebbe la forza della coalizione di centro-sinistra.
Amen.

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La credibilità? E quante divisioni ha?

Ogni estate ha i suoi tormentoni, e così ogni stagione politica: la “breve ma intensa” stagione politica montiana ci consegnerà il tormentone della credibilità (meglio della sua riacquisizione): simbolo della cesura fra il circense governo Berlusconiano e l’austero governo Montiano. Anche, e forse paradossalmente sopratutto, dai suoi detrattori: quante volte le critiche al governo Monti hanno avuto come premessa “Certo, ci ha fatto riguadagnare credibilità davanti all’Europa, però…”; ad indicare insomma una positività certa e inconfutabile (relativamente a quel campo).
Ora, che questa riacquisizione effettivamente ci sia stata è vero, e d’altra parte la non-credibilità europea di Berlusconi sembra una precisa scelta di marketing del cavaliere. Le due domande che mi pongo, e che invito a porre, sono però altre: Quanto guadagno comporta in termini concreti la credibilità (1)? E guadagno per chi (2)?
(1) “Il Papa? E quante divisioni ha?” Così rispondeva provocatoriamente Stalin al ministro Francese che gli consigliava di guadagnarsi il favore del Papato; la frase (originariamente di Federico II di Prussia), è passata alla storia come una delle migliori sintesi della RealPolitik. E allora è ugualmente lecito domandarsi, nel contesto politico italiano contemporane(issim)o: “Quante divisioni ha la credibilità”?
La credibilità internazionale, è in sostanza la percezione dell’affidabilità di un paese da parte degli altri paesi. Se sono credibile, gli altri stati avranno fiducia nelle mie promesse, nei miei intenti politici dichiarati, etcetera.
La credibilità dunque ha un proprio ruolo, in particolare all’interno di organizzazioni internazionali come l’Ue e l’Onu, dove le interdipendenze reciproche sono elevate, ma ha un limite evidente: un paese credibile, ma debole, rimane un paese debole; un paese poco credibile, ma forte/egemone, rimane forte/egemone.
Se vi è una relazione fra credibiità e potere, questa è limitata ad alcuni campi e certamente non è direttamente proporzionale. Nessuno ipotizzerebbe che uno scandalo sessuale negli Stati Uniti possa portare ad una variazione del proprio ruolo egemone, come nessuno ipotizzerebbe che un Principe particolarmente credibile del principato di Monaco possa mutare sensibilmente la sua rilevanza. Putin non risponde propriamente all’identikit del Presidente credibile e illibato da scandali, ma sfido a sostenere che questo abbia influenzato realmente la rilevanza regionale/internazionale della Federazione Russa.
Altri generi di credibilità possono avere conseguenze rilevanti, quali ad esempio la credibilità della promessa di difesa di uno stato protettore su uno stato protetto, ma è altra credibilità da quella che interessa il binomio Berlusconi-Monti.
(2) La credibilità non è un concetto astratto, è un concetto relazionale e valido solo se immerso nel reale: io sono credibile grazie a qualcosa agli occhi di qualcuno.
Allora, grazie a quali politiche/indirizzi Monti è credibile davanti a chi? Se la risposta sono le politiche di austerity (corrispettivo economico della austerità nei costumi), agli occhi degli organi e attori politici europei che la propugnano (oggi ancora dominanti anche se si avvertono i primi scricchiolii), possiamo dire, da una prospettiva di sinistra, che è una credibilità di cui faremmo volentieri a meno.
Do you remember Grecia? Nelle elezioni in Grecia del giugno 2012, vinte da Νέα Δημοκρατία, un ruolo fondamentale nella vittoria contro ΣΥΡΙΖΑ lo ha avuto il mantra della “credibilità” delle ricette economiche proposte da Νέα Δημοκρατία agli occhi dell’Europa, recitato dal partito di centro-destra e dagli stessi vertici Europei!
Insomma: se tutto ciò che di positivo che ci ha lasciato il governo Monti è la credibilità, si può dire a mio parere che è una ben magra consolazione.

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Riflessione (lunga) sul conflitto Maliano

Il conflitto in Mali, vuoi per il periodo nel quale è scoppiato, vuoi per la tipica tendenza giornalistica italiana a snobbare i temi di politica estera, sta, per così dire, strisciando al di sotto del dibattito pubblico nazionale.
Il governo italiano dopo un iniziale, un poco inquietante silenzio, ha deciso di contribuire con l’invio di alcuni addestratori militari, e un generico “supporto logistico”, che nelle ultime ore sembrerebbe includere anche l’impiego di alcuni droni militari. Questo, senza coinvolgere il parlamento italiano e approfittando di fatto dell’inattività pre-elettorale.
Ma partiamo dal principio: La Francia interviene militarmente in Mali l’11 Gennaio, in seguito ad una richiesta del governo Maliano. La stessa Francia che nel 2011 inaugurò l’intervento militare internazionale in Libia.
Anche se il Presidente della Repubblica è mutato, da Sarkozy ad Hollande, non paiono mutati gli indirizzi in politica estera della Francia, intenzionata a giocare una politica “di potenza”, aggressiva, in particolare nella regione nord-africana del Maghreb e del Sahel: una politica si può ipotizzare mossa da molteplici interessi, ovvero
(1) mantenere dei rapporti economico-commerciali privilegiati con i paesi della regione, in buona parte proprie ex-colonie (la ei fu Africa Occidentale Francese, ovvero Mauritania, Niger, lo stesso Mali, l’Algeria, ma anche Senegal, Ciad e Burkina-faso, tutti paesi dove la Francia mantiene dei contingenti militari), caratterizzati da tipiche pratiche neocolonialiste. E’ facile individuare come il Mali sia l’epicentro geografico di una serie di interessi economici francesi in Mauritania (dove la Total estrae petrolio da 7 anni), in Niger (fondamentale fonte di Uranio per le centrali francesi tramite Areva e EDF, e dove è di prossima costruzione la seconda miniera d’Uranio più grande al mondo) e l’Algeria (primo partner commerciale francese e paese molto ricco di gas); scontato che lasciare dunque il Mali (fra l’altro alleato storico della Francia) o semplicemente fallire, nel significato proprio di stato fallito, o in mano ad un nuovo governo ostile di stampo fondamentalista islamico, porrebbe una seria ipoteca sulla stabilità regionale e gli interessi economici francesi.
(2) di prestigio europeo ed internazionale: la Francia, complice anche uno storico e mai del tutto sopito orgoglio patriottico, ma anche una più prosaica e diffusa volontà di affermazione, può solo puntare sulla politica estera per poter rivendicare un proprio ruolo egemone in Europa: la crisi economica che colpisce anche la Francia la condanna, sul versante economico, a un ruolo gregario rispetto alla sempre più evidente egemonia tedesca; il versante della politica estera (e dunque del potere militare) diventa il campo dove esercitare e guadagnare prestigio e la propria egemonia a livello regionale (europeo), e preservare il proprio ruolo di attore rilevante nello scacchiere degli Stati a vario titolo e forma interessati nel continente africano.
(3) distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica interna (francese) dal problema economico e dalle difficili riforme in previsione, secondo uno dei metodi più antichi ma efficaci della storia dell’umanità, ovvero la coagulazione della popolazione tramite l’individuazione di un nemico comune. Non a caso il frame riproposto è quello della guerra al terrorismo Al-Qaedista, aggravato dalla minaccia diretta sul territorio francese.
Il contesto dell’intervento francese, però, pare molto più complesso.
Dal conflitto libico, nella realtà dei fatti, la Francia non uscì particolarmente rafforzata sul piano del prestigio internazionale, dimostrandosi sostanzialmente inadeguata al compito arrogatosi di risolutrice del conflitto; a risultare fondamentale si rivelò, fatto per nulla strano, l’intervento militare statunitense: gli Stati Uniti non temettero di di farlo pesare, in forma anche alquanto esplicita, nei confronti della Francia e più in generale dei paesi europei al fianco dell’Europa (sarebbe interessante ma troppo dispersivo riflettere sulla sovrapposizione avvenuta fra aspirazioni francesi in Europa e rapporto fra Europa e Usa). L’ammissione implicita da parte della Francia di questo fallimento avvenne con la cessione della gestione dell’intervento militare sotto il controllo NATO, dunque degli Stati Uniti.
La guerra civile libica ebbe un altro effetto rilevante ai fini dell’attuale conflitto Maliano: all’interno di quell’entità magmatica, indefinita, e spesso mitizzata dalla stampa occidentale che erano i “ribelli libici” al regime di Gheddafi, una parte se non maggioritaria consistente era composta da integralisti islamici contigui alle posizioni Al-Qaediste. Sono noti a tutti il contributo ingente e fondamentale ai fini del conflitto portato ai ribelli, in termini di armamenti, da parte proprio di Francia e NATO. Proprio questi importanti contributi paiono aver permesso ad Al-Qaeda tramite le milizie ad essa contigue (il lifg, Lybian Islamic Fighting Group) una nuova importante fase di espansione, realizzatasi nel medio-oriente con la presenza sempre più rilevante di forze integraliste islamiche nella fsa (Free Syrian Army) e in Africa proprio con l’aggravarsi della guerra civile che interessa il Mali, in cui nel Nord del paese i tuareg tradizionalmente combattenti per l’indipendenza si sono alleati, ed alcuni sostengono siano stati marginalizzati, con l’Al-Qaeda In Maghreb.
Entrambi gli eventi considerati qui sopra hanno avuto una notevole ricaduta sull’intervento militare francese odierno in Mali.
Difatti la Francia, sebbene abbia espresso la convinzione di chiudere celermente il conflitto (sintomatico è stato il celere annuncio della riconquista di Konna, poi smentito sia dagli integralisti che dai francesi), ha immediatamente cercato il sostegno statunitense, il quale non ha mancato in un primo momento di farsi desiderare, per poi intervenire avallando il frame della guerra al terrorismo, ma limitando il proprio intervento al campo aereo; d’altra parte neppure gli Usa possono ignorare i propri interessi in Africa. Particolare fra l’altro come la Francia abbia iniziato autonomamente il conflitto, forzando l’interpretazione di una risoluzione Onu, per poi però richiedere da subito l’intervento del resto dei paesi europei con la formula del “non lasciateci soli nella lotta al terrorismo”. L’unilateralismo francese può spiegarsi con la volontà di mantenere rigido il proprio “diritto di prelazione” sul territorio maghrebino, anche nella consapevolezza, evidente innanzitutto alla Francia, di non potere gestire il conflitto da sola. Insomma, l’eliseo sembra dire: tutta l’Europa ha il dovere di combattere il terrorismo, ma la sola Francia ha il diritto di iniziativa e di comando, perlomeno sul suolo africano. Altra ipotetica spiegazione della scelta francese è che in realtà la Francia non volesse questo conflitto. O che, meglio, lo avesse previsto ben più oltre. Questo spiegherebbe la gran fretta francese e le pressanti richieste di sostegno immediato. Da notare come le due interpretazioni non si contraddicano, anzi credo siano entrambe almeno parzialmente vere.
Ma da quali elementi l’intervento è stato costretto? Pare sia proprio qui che rientrano in gioco i ribelli libici/Al-Qaeda in Maghreb, che hanno sconvolto gli equilibri delle fazioni in gioco nella guerra civile Maliana, accellerando notevolmente il crollo del debolissimo regime di Bamoko.
Insomma, per uno dei tanti paradossi della storia, la Francia interviene per contrastare il dilagare dei ribelli, i quali hanno avuto la meglio nel conflitto grazie agli armamenti procurati…dalla Francia!
Se dunque vi è un colpevole dell’intervento francese in Mali, questo è la Francia stessa, che ha prima finanziato i nemici del governo Maliano proprio alleato, mettendo la popolazione a rischio di essere assoggettata ad un fondamentalismo islamico estraneo alla propria tradizione, e si è fatta cogliere poi impreparata dall’evolversi degli eventi.
A nota di tutto, appare molto ambigua la posizione dell’Unione Africana, la quale attualmente pare volenterosa di difendere il governo Maliano, parte integrante di essa, senza però molte possibilità di portare contributi concreti, preferendo così lasciar fare alla Francia, mostrando una evidente debolezza politica: l’UA si oppose fermamente alla guerra di Libia, che come abbiamo visto è una delle cause della degenerazione dell’attuale conflitto, davanti al quale però l’UA non è stata in grado di fare altro che appellarsi alla Francia, rinunciando a formulare qualsiasi critica (a ben vedere più che giustificata) sul modus operandi europeo e le sue conseguenze.
Insomma, chi ritiene questo intervento giusto, perché invocato dagli stessi paesi africani, o perché necessario per “la guerra al terrorismo”, a mio parere è in torto in quanto il tracollo dello stato Maliano è da imputarsi alla stessa Francia; ora, a emergenza in corso, la guerra non può essere la soluzione per tanti motivi:
(1) la durata di un conflitto, in un territorio adatto alla guerriglia come quello Maliano, è assolutamente incerta;
(2) in guerra, perlomeno nella guerra contemporanea, è noto che la grandissima parte dei morti sono morti civili, in particolare le categorie più fragili come quella femminile e infantile: chi si prende la responsabilità di operare, o sostenere, un conflitto armato, deve anche prendersi la responsabilità di tutti quei morti che sui media non vengono quasi mai menzionati, divorati nel tritacarne del frame della guerra umanitaria;
(3) come dimostrano i conflitti in Afghanistan, Iraq, Libia, etcetera, la guerra aperta ad Al-Qaeda e soci ha fin’ora foraggiato ed aiutato la propaganda fondamentalista, che si espande sulla pelle delle popolazioni civili che vengono bombardate ed invase, che riesce ad egemonizzare molti schieramenti ribelli grazie alla propria organizzazione ed al proprio arsenale (che è ciò che sta accadendo in Siria e anche, appunto, in Mali); questo porta ad altri atti terroristici (il primo sta già avvenendo in Algeria con un altissimo numero di ostaggi), altro terrore, altra guerra al terrore, in una spirale involutiva sempre più buia e sporca di sangue.
(4) non dimentichiamoci che il conflitto maliano non è solo un conflitto fra stato (debolissimo) e integralismo islamico: anzi, questo è un secondo livello del conflitto, che è andato a sovrapporsi al primo, un tipico conflitto inter-etnico all’interno del tipico stato africano costruito col righello; intervenire e favorire il conflitto significa favorire un conflitto etnico, sulle cui conseguenze in Africa abbiamo sufficienti testimonianze.
Quale soluzione, allora? Certo è che la soluzione diplomatica sarebbe stata più semplice senza questo grado di debolezza dello stato Maliano, e grado di forza del fondamentalismo islamico.
Nella mia inadeguatezza a possedere risposte ad una domanda così complessa, il mio parere è che la soluzione a questo conflitto, permettete il paradosso, non può limitarsi a questo conflitto, ma dovrebbe comporsi d’interventi, e di cambi di mentalità, allargati a tutto il Sahel e tutta l’Africa: favorire il dialogo e la diplomazia, rafforzando gli attori africani piuttosto che compiendo ingerenze come attori europei, intensificando gli aiuti umanitari, terminando l’orrido neocolonialismo che condanna molte popolazioni africane alla miseria e molti stati africani ad una intrinseca debolezza.

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Riflessioni “semifredde” su queste primarie

Le personali riflessioni sulle Primarie di Sel in Lombardia ieri non possono che essere “semifredde”: perché se la notte porta consiglio e distacca dal vortice emotivo della giornata (e serata) di ieri, e concede anche più lucidità per i tanti che, come me, sono stati ai seggi tutto il giorno (il presidente di seggio non sarà mai il mio mestiere), quel vortice di emozioni e entusiasmo è qualcosa che una notte non può dissolvere, e che credo (e spero) non si dissolverà per tutta la campagna elettorale.
Sono state primarie difficili, sofferte: lo sapevamo innanzitutto noi militanti che ne abbiamo ampiamente discusso nelle assemblee. Non c’erano i tempi, per organizzare e per comunicare; non c’era chiarezza; non c’era una data che permettesse un’ampia affluenza.
Ce lo siamo sentiti dire più volte ieri, ai seggi, da elettori che ci ammettevano di averlo saputo quasi per caso all’ultimo, che ci chiedevano perché non si fosse comunicato adeguatamente, che ci domandavano al seggio informazioni su chi fossero i candidati, nell’imbarazzo di chi, come me chiamato a svolgere il ruolo di presidente o di scrutatore, cercava di fornire informazioni senza venir meno al proprio dovere di neutralità.
E’ proprio quest’ultima casistica però a darmi la prova migliore della necessità di queste primarie: cittadini che anche se non conoscevano direttamente, o addirittura indirettamente, alcun candidato, hanno speso del tempo della propria giornata per potersi esprimere e partecipare alla vita politica. La partecipazione, non come mero principio, ma come strumento efficiente, capace di imprimere il proprio segno nella politica.
Novecento persone, in Brianza, moltissime delle quali hanno volontariamente donato un contributo per l’attività di Sel sul territorio e hanno lasciato la propria mail o telefono per poter essere contattati: atti di fiducia che dimostrano che quando si offrono ai cittadini strumenti di reale partecipazione, si riacquista credibilità.
Rimane il rimpianto per delle primarie che, se avessero avuto più tempo lungo cui dispiegarsi, avrebbero permesso un maggiore fermento politico dentro a Sel, ma le teorie per immergersi nel reale devono farsi prassi, e la prassi non può prescindere dal contingente.
In ultimo, concedetemelo: se ieri sera su facebook scrivevo che “qualche risultato ci renderà più entusiasta, tutti ci renderanno felici”, oggi posso dire che l’entusiasmo c’è eccome.

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Il mio “dream team” per le primarie Sel del 29 Dicembre

Trovo estremamente azzeccata la definizione di Fabio Larocca stamattina delle primarie del 29 Dicembre quali la scelta del proprio “dream team” parlamentare.
Purtroppo la principale differenza è che i dream team calcistici sono composti da 11 giocatori, quelli del Basket da 5, mentre il 29 si potranno votare solo 4 candidati, imponendo scelte sofferte.
Per la Camera il mio voto andrà ad Alfredo Somoza e a Valentina la Terza.
Alfredo è un compagno che conosco ormai da due anni (non pochi per un ventenne), la cui competenza e spessore parlano da sé tramite un curriculum spaventoso, e il cui fervente impegno può essere testimoniato credo da chiunque abbia lavorato assieme a lui.
Fra le donne candidate per la camera, non me ne vogliano le due ottime candidate brianzole Rossana Currà e Laura Valli, voterò Valentina Laterza. Oltre che per il magnifico slogan #staichoosy, perché anche se non posso dire di conoscerla quanto Alfredo, è una candidatura che riesce a imbrigliare e fare sintesi di quella tensione generazionale e culturale per il rinnovamento di cui tutti sentiamo la necessità. Ed è fondamentale che queste tensioni, queste istanze, queste speranze siano portate in parlamento.
Per il Senato il mio voto andrà a Dario Liotta e Giovanna Amodio.
Dario è un compagno di cui ho imparato a conoscere ed ammirare la grande cultura politica e la forza del suo impegno totale per la politica.
Come donna voterò Giovanna Amodio di Agrate Brianza, che ho la sfortuna di conoscere poco personalmente ma la cui stima condivisa di tante compagn* fa da garanzia.